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CASSAZIONE: Eredita’: rinuncia erede universale - previsone civilistica e diritto tributario
Sfalsamento temporale della rinuncia all’eredita’ da parte dell’erede universale-potenziale abuso del diritto - effetti della disarmonia tra previsone civilistica e diritto tributario.
Accettata l’eredità il chiamato diventa erede.
Accettare l’eredità è senza meno atto negoziale unilaterale attraverso il quale si palesa la volontà del “delato” a disporre e godere dell’eredità.
Accettare l’eredità implica un mutamento del titolo soggettivo nel “negozio” nel senso che il soggetto passa e qualifica la propria posizione giuridica mutandola da chiamato alla successione a successore a titolo universale , cioè erede.
L’accettazione non necessita di recettività essa si perfeziona a seguito della sola manifestazione unilaterale del soggetto chiamato; peraltro non potrebbe che essere così posto che la natura stessa del testamento, negozio non imputabile alla risultante di due distinte volontà, è di per sé atto esclusivo e personale dell’erede in fieri ; tale negozio non potrebbe presupporre né tollerare un accordo bilaterale , tant’è che l’accettazione del relictum ( differenza tra attivo e passivo dell’asse ereditario) potrà intervenire solo dopo la morte del testatore e ciò a tutela e garanzia della rigorosa unilateralità delle disposizioni testamentarie.
Delimitati i contorni della unilateralità del negozio/testamento , ne deriva che l’accettazione del contenuto del testamento si pone nella medesima , ma al contempo distinta, veste di atto unilaterale autonomamente disciplinato.
Speculare all’accettazione, quasi ad essa contraltare, si pone la rinuncia all’eredità sia essa abdicativa che traslativa ; il cui diritto di esercizio si prescrive nel termine ordinario di dieci anni dall’apertura della successione.
Anch’essa , come l’accettazione, denuncia il proprio connotato di unilateralità laddove risulta essere il mezzo attraverso il cui utilizzo il chiamato dismette il proprio diritto all’accettazione dell’eredità.
Essendo un atto a contenuto negoziale , quindi capace per vocazione di riverberare effetti sui “consociati”, la rinuncia implica la capacità di agire del rinunziante ,essa sarebbe annullabile al pari di un qualsiasi negozio giuridico qualora fosse stata resa in costanza di violenza e/o dolo, in tal caso soccorrerebbe la prescrizione abbreviata quinquennale onde vanificarne gli effetti fraudolentemente indotti e il tutto a decorrere dal giorno in cui cessi la violenza o venga scoperto il dolo ( art. 526 c.c.).
Di palmare evidenza è che tra i vizi del consenso sopra citati quali effetti di annullabilità della rinuncia , non è stato espressamente previsto l’errore, così sancendone la irrilevanza in considerazione del fatto che in tal modo si è voluto arginare un probabile dilagante fenomeno che poteva ancorarsi ad una valutazione opportunistica dell’atto in termini di convenienza.
Per converso come nell’istituto della accettazione così anche per la rinuncia si è voluto riconoscere pregnanza all’errore ostativo se la volontà del rinunciante non avesse corrisposto al contenuto della dichiarazione nel senso di essere stato costui indotto in errore avendo ritenuto di accettare o di rinunciare ad una eredità anzicchè ad un ‘altra .
Tanto l’accettazione che la rinuncia presentano un comune denominatore , la nullità , laddove l’una o l’altra fossero state sottoposte a condizione o termine o se denunciassero natura parziale rispetto al relictum, ( art. 520 c.c.) .
Effetto primo della rinuncia è la perdita dell’eredità nel senso che il rinunciante è in definitiva come se mai fosse stato chiamato a succedere.
Tale effetto primo è però mitigato dalla previsione normativa di cui all’art. 525 c.c. laddove si contempla l’ipotesi della revoca della rinuncia ; tale diritto trova naturale barrage normativo proprio nell’art. 525 c.c. che cristallizza il limite della predetta revoca nel momento in cui gli ulteriori chiamati non abbiano accettata la chiamata alla successione, in definitiva la rinuncia assume i connotati della irreversibilità nel momento in cui i successivi chiamati abbiano risposto alla delazione con l’accettazione .
La perdita quindi del diritto a succedere quale effetto della causa rinuncia, è di fatto un effetto provvisorio che deriva definitività nell’acquisto dell’eredità da parte degli altri e ulteriori chiamati alla successione.
Ovviamente la revoca altro non realizza se non un’accettazione dell’eredità.
E’ sulle precisazioni , seppure scarne e stringate, che precedono che si vuole dilatare il confine concettuale tanto dell’accettazione che della rinuncia come normato dal codice civile , fino a traslarne portata e contenuti nei confini della disciplina tributaria .
Tale compenetrazione concettuale ha lo scopo di derivare confini e limiti tributari che potenzialmente possono derivare dall’accettazione o dalla rinuncia di un relictum .
Il caso di specie afferisce l’ipotesi di una successione dapprima in linea retta apertasi da madre a figlie e poi divenuta collaterale da sorella a sorella a causa del decesso di una delle due.
Brevemente il caso .
Nell’ambito di una chiamata alla successione una delle chiamate (sorelle tra loro e figlie della de cuius) decede prima di entrare in possesso dei beni ereditari relitti dalla genitrice.
L’erede superstite , al contempo figlia e sorella delle “ de quibus” rivolge all’Amministrazione finanziaria un quesito sostenendo di ritenersi obbligata alla presentazione di un’unica dichiarazione di successione quale erede universale della madre e posto che la sorella , sua coerede,rispetto al “relictum” è deceduta prima di entrare in possesso dei beni ereditari, non potendo quindi compiere alcun atto di accettazione sia esso espresso o tacito , di modo che risulterebbe a dire dell’interpellante che la coerede non potesse essere considerata soggetto passivo di imposta.
L’interpellante aggiunse poi che a suo modo di vedere , qualora l’amministrazione finanziaria opponesse alla soluzione prospettata il fatto che soggetto passivo di imposta può essere ritenuto il chiamato che non abbia accettato l’eredità, comunque sarebbe da ritenere legittimo potere indicare se stessa quale unica erede nella successione della madre una volta che avrà proceduto a rinunciare , in nome e per conto della coerede-sorella-deceduta , all’eredità della madre.
L’intervenuto rigetto da parte dell’amministrazione finanziaria della tesi sostenuta dall’interpellante ( a mezzo Risoluzione n. 234 del 24.08.2009) trova fondamento e ratio nel combinato disposto di cui agli artt. 28 comma 2 e 5 e 7 comma 4 del D. Lgs. 346/1990 (c.d. T.U.S.) laddove si evince da un lato che sono obbligati a presentare la dichiarazione di successione i chiamati all’eredità e i legatari , dall’altro che costoro sono esonerati dal richiamato obbligo se i medesimi avranno rinunciato all’eredità anteriormente alla scadenza di cui al successivo art. 31 cit. D.lgs. informandone con raccomandata l’ufficio fiscale competente e allegando dichiarazione di rinuncia all’eredità. Infine dal suddetto combinato disposto all’art. 7 citato comma viene stabilito che fino al momento dell’accettazione dell’eredità l’imposta viene determinata in considerazione che tutti i chiamati sono eredi o legatari fino a quando non intervenga rinuncia da parte di costoro.
Ai fini tributari lo status di “delato” riveste peculiari caratteristiche posto che la semplice delazione determina tout-court l’acquisto dell’eredità in ciò enormemente differenziandosi dalla disciplina civilistica che subordina lo status di “heres” all’accettazione del relictum.
Conseguenza della predetta linea di discrimine è che il prodromo del tributo successorio è da rinvenire nell’apertura della successione coincidente con l’exitus e ciò a prescindere dalla formale accettazione dell’eredità.
Quanto testè affermato trova sostegno e conferma nella pronuncia della Cassazione del 10.03.2008 n. 6327 la quale afferma che “..omissis….… nell’ambito della legge tributaria delle successioni non sono del tutto applicabili i principi del codice civile che regolano l’acquisto della qualità di erede, atteso che in detto ambito già la sola delazione determina per se stessa l’acquisto dell’eredità”
Da quanto precede pare possa derivarsi che ai fini tributari il chiamato all’eredità è ab origine ,dal momento dell’exitus , gravato dall’onere dell’imposizione successoria e ciò a prescindere dal suo diritto di accettare o meno l’eredità .
Risulta , pertanto, agevole comprendere la fondatezza di quanto affermato se lo si rapporta al contenuto del documento di prassi – Risoluzione n. 351040 del 16.03.1992 – in base al quale - “………chi acquisisce il patrimonio relitto in via definitiva a seguito di plurimi decessi, dovrà soggiacere all’onere di presentare oltre che la propria dichiarazione anche le precedenti e sottoporsi a più tassazioni per effetto del meccanismo successorio secondo cui il chiamato all’eredità , che abbia o meno manifestato la volontà di accettare, è soggetto per l’appunto, all’obbligo di presentare la dichiarazione di successione e di corrispondere l’imposta dovuta”.
Secondo le indicazioni di tale Risoluzione , nel caso di specie , l’erede superstite sarebbe quindi tenuta alla presentazione di due distinte dichiarazioni, quella relativa alla successione della propria madre indicando come chiamate se stessa e la sorella defunta, e quella relativa alla successione della predetta sorella.
Fin qui gli obblighi dichiarativi in capo al delato; addentrandoci nella fattispecie ci imbattiamo nel successivo “barrage” riguardante le conseguenze fiscali da ricondurre all’eventuale rinuncia all’eredità che l’erede superstite avrebbe inteso porre in essere in nome e per conto della sorella.
La risposta a tale quesito non può prescindere dalla previsione codicistica di cui all’art. 479 c.c. laddove si legge che “ se il chiamato all’eredità muore senza averla accettata , il diritto di accettarla si trasmette agli eredi”.
De plano si ricava che la morte non estingue il diritto ma lo trasmette ai successori a titolo universale.
Logico corollario è che il trasmissario accettata l’eredità dal trasmittente, potrà accettare o rinunciare all’eredità dell’originario dante causa , nella fattispecie la madre.
In linea generale occorre ora soffermarsi sugli effetti che nel caso di specie deriverebbero dall’eventuale rinuncia all’eredità della madre effettuata dall’interpellante in nome e per conto della sorella defunta prima di potere accettare la chiamata al relictum.
E’ di palmare evidenza , nella particolare ipotesi testè prospettata , che esercitare il diritto di rinuncia come regolamentato per il caso specifico ex art. 479 c.c. , di per sé non comporterebbe alcun mutamento nella devoluzione ereditaria poiché l’interpellante di fatto diverrebbe erede a titolo universale. Sta di fatto però che unico e solo scopo della rinuncia in nome e per conto della sorella defunta sarebbe quello di acquisire un vantaggio in termini di risparmio di imposta. Infatti così agendo il vantaggio in parola verrebbe conseguito attraverso l’omissione di un passaggio successorio venendosi a concretizzare nella differenza sostanziale tra le diverse aliquote e franchigie che differenziano i passaggi successori in linea retta e in linea collaterale.
Tanto detto seguendo gli orientamenti più recenti peraltro dettati dalla Cassazione e resi a SS.UU. con la sentenza n. 30057 del 23.12.2008 ,il caso di specie sarebbe emblematico della realizzazione fattuale della fattispecie di elaborazione giurisprudenziale c.d. di “ abuso del diritto” .
In riferimento a tale fattispecie bisogna chiedersi se sia ammissibile un comportamento tale che utilizzi poteri e facoltà attribuiti dall’ordinamento al soggetto che poi di fatto li utilizzi per perseguire finalità diverse da quelle riconosciute e tutelate dal Legislatore.
Nel sistema tributario italiano non esiste una norma antielusiva generale , esiste però un panorama normativo multiforme che di volta in volta intenderebbe arginare i fenomeni elusivi rispetto a determinati ambiti impositivi e fattispecie ben tipizzate.
Deriva da tali brevi considerazioni che la nozione di “abuso del diritto” come formulata dai giudici di legittimità assume il ruolo di una sorta di clausola di salvaguardia utilizzabile e valevole per tutti gli ambiti e i settori afferenti l’ordinamento tributario.
Invero il concetto di “abuso del diritto” non ha ricevuto dall’ordinamento italiano una disciplina generale , il Legislatore non ha mai ritenuto necessario codificare tale principio ritenendo che non si trattasse di nozione giuridica quanto piuttosto di concetto etico-morale.
Il nostro ordinamento, tuttavia, prevede alcune norme che consentono di sanzionare comportamenti volti ad abusare di diritti ( cfr. artt. 330 – 833 – 1175- 1375 c.c.) oppure di una intera branca del diritto ( nello specifico il diritto tributario) assumendo a loro fondamento un limite nell’autonomia contrattuale , consistente nell’impossibilità di contrarre obbligazioni che, seppure lecite, possano condurre ad elusione e\o evasione di tributi e\o imposte.
In tale ultimo caso il principio del “neminem ledere” assurge a tutela del più generale diritto dello Stato , ad ottenere l’esecuzione dell’obbligazione tributaria.
E’ chiaro quindi che si attua utilizzo abusivo di un diritto se saranno presenti due elementi:
Animus nocendi , connotato dalla soggettività della condotta;
Assenza di utilità dell’azione, connotata dall’oggettività di un’effettiva utilità perseguita e da ottenere .
L’elemento oggettivo dell’assenza di utilità è un elemento necessario solo nel caso di diritti che esulano da quello dello Stato al pagamento dei tributi per i quali ultimi pare sia basilare al fine diretto dell’elusione e\o evasione di imposta . A tale riguardo la Corte di Cassazione con diverse recenti pronunce ( in multis cfr n. 30055 – 30056 -30057 del 23.12.2008 e 15029 del 26.6.2009) rese a Sezioni Unite , ha riconosciuto di fatto l’esistenza del succitato principio generale antielusivo ed ha altresì precisato che la fonte di tale principio , in ambito di tributi non armonizzati, va rinvenuta negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano, in particolare quello della capacità contributiva e quello della progressività dell’imposta di cui all’art. 53 Cost. .
In particolare i Giudici del “Palazzaccio” hanno affermato che i principi di cui all’art. 53 Cost. sono si il fondamento di tutti i principi impositivi del nostro ordinamento ma hanno anche rinvenuto in essi - cristallizzandone il principio in quello di “abuso di diritto” - il fondamento del sistema normativo che attribuisce al contribuente vantaggi o benefici di qualsiasi genere e natura.
Diretta conseguenza di tale elaborazione giurisprudenziale è che deve ritenersi insito nell’ordinamento – direttamente tributato dalle norme costituzionali – il principio per il quale nessuno può trarre indebiti vantaggi fiscali dall’uso distorto , pur se conforme a disposizioni legali , di strumenti giuridici idonei ad ottenere un qualsiasi risparmio fiscale, per giunta in assenza di motivazioni economicamente apprezzabili che ne possano giustificare il loro approntamento , motivazioni diverse dalla pura e semplice aspettativa di un risparmio fiscale .
Tra le sentenze citate merita un breve accenno di approfondimento la sentenza n. 30057 del 23.12.2009 resa a SS.UU. la quale , enucleato dalla controversia il principio di diritto cui i giudici di merito dovranno uniformarsi, arriva ad affermare in buona sostanza che è da ritenere “abuso di diritto” quel comportamento finalizzato all’utilizzo di forme e strumenti approntati si dal Legislatore , ma utilizzati artatamente al solo scopo o essenzialmente allo scopo di trarne indubbio vantaggio fiscale; tali comportamento seppure “legali” consentono di eludere il Fisco, quindi, la pronuncia in parola impone come principio di rinvio al giudice della cognizione , quello di adoperarsi per cogliere la vera natura della prestazione e di stabilirne l’assoggettabilità ad imposizione in relazione al vero contenuto , non a quello eventualmente simulato.
In buona sostanza ciò che è stato ribadito ( in tal senso cfr, in multis Cass. 8772\2008 e Cass. 12237\2008) è che nel nostro ordinamento tributario non ha cittadinanza , ossia nessuna validità fiscale, l’insieme di operazioni poste in essere da contribuenti che operano in regime di “abuso del diritto” . In definitiva, risulta non opponibile al Fisco l’insieme di quelle operazioni caratterizzate da atti “agiti” in via primaria e poi finalizzati al conseguimento di un indebito risparmio di imposta.
Ovviamente seppure giuridicamente abortivo del principio generale “ onus probandi incumbit ei qui dicit” , il contribuente , con inversione dell’onere della prova dovrà, se potrà, dimostrare che le operazioni poste in essere sono fondate su ragioni economiche di importanza non marginale e teorica rispetto al vantaggio fiscale realmente conseguito.
In relazione alla fattispecie concreta di cui in narrativa , il percorso giurisdizionale esaminato ci porta a concludere che, ferma restando la liceità , civilisticamente parlando e relativamente al disposto di cui all’art. 479 c,.c., tuttavia la scelta di rinunciare in nome e per conto della sorella defunta all’eredità dell’originaria dante causa e madre, non potrà essere opposta al Fisco nei confronti del quale continua a sussistere la validità dell’impianto normativo di cui al combinato disposto degli artt. 7 e 28 D.lgs. 346\1990 .
CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.
Da tutto quanto precede si ritiene di potere affermare che un “precedente” faccia c.d. “stato” nel nostro Stato di diritto.
Vale a dire che a fronte di un impianto normativo su cui peraltro si fonda e riposa il concetto di “Stato di diritto” fondato sulla c.d. norma scritta dettata dal Legislatore nell’esercizio del potere Legislativo, a tutela e garanzia dell’agire consociato, si diceva , a fronte di ciò, si arriva riconoscere e conferire dignità superiore al “precedente “ inteso come principio di derivazione ed elaborazione giurisprudenziale , seppure dettato dalla Cassazione a SS. UU. .
Tale principio va di fatto a sostituirsi , o meglio a colmare quel vuoto normativo che il sistema tributario denuncia laddove le norme dettate a fini antielusivi non risultano , di fatto, essere in grado di arginare il fenomeno dell’utilizzo “border line” delle norme e degli strumenti approntati dall’impianto normativo.
Sembra a chi scrive che un eventuale ricorso alla Consulta ,per paradosso o come extrema ratio, potrebbe essere incardinato per conflitti tra poteri dello Stato , laddove ad un ambito squisitamente normativo ,quindi di esercizio del potere legislativo , si frappone e contrappone quello giurisdizionale che indicando e creando una categoria di elaborazione giurisprudenziale di fatto, magari “de jure condendo” ha legiferato nel sistema tributario italiano, conferendo ad un “principio” la forza normativa necessaria per mettere da parte , nella fattispecie , la norma civilistica a favore di un “principio” che giammai in quanto tale potrebbe essere dotato di una tale forza da sostituirsi ad un disposto normativo.
Magra consolazione deriva poi dal monito che la Suprema Corte rivolge agli Uffici Finanziari .Essi mai dovranno limitarsi ad una semplice e generica affermazione di “pratica abusiva” ma ,comunque e sempre ,dovranno individuare e precisare gli indizi oggettivi e certi, nonchè tutto l’impianto logico che li avrà sostenuti nel fare loro ritenere .l’operazione posta in essere un “abuso di diritto” privo di spiegazione economica che ne giustifichi la sostanzialità.
Come si diceva , dal canto suo il contribuente , con inversione dell’onere probatorio, così come già nel caso dell’applicazione dei parametri presuntivi e dei risultati economici calcolati ai fini degli studi di settore nonché nelle ipotesi di accertamento ex art.62 sexies D.L. 331\1993 come convertito in Legge 427|1993 dovrà fornire prove contrarie agli assunti presuntivi dell’Ufficio Finanziario ; anche nell’ipotesi in parola sarà appunto , grazie alla creazione di un “tertium genus” di presunzione, che il contribuente dovrà dimostrare che il comportamento usato e l’impiego degli istituti giuridici utilizzati sono stati effettivamente consoni al risultato giuridico ed economico che aveva in animo di perseguire.
In conclusione si ritiene sarebbe giusto ed auspicabile che, preso atto del vuoto normativo che di fatto agevola taluni nel senso di consentire loro un uso distorto dei “mezzi legali” in effetti permettendo una sorta di “elusione legale”, quindi indebiti risparmi di imposta e\o sottrazione di materia imponibile, di fronte a ciò , si diceva, sarebbe auspicabile che il Legislatore intervenisse , nell’esercizio del potere legislativo , a colmare al lacuna di modo da riappropriarsi della funzione sua propria riconoscendo così al potere giurisdizionale quello solo di applicare le Leggi.
fonte overlex
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