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Se manca il dolo non c'è calunnia
L'espressione suggestiva può far scattare la calunnia, se dal suo tenore emerge la volontà di incolpare qualcuno di un reato (pur sapendolo innocente). Ma può invece meritare l'assoluzione chi abbia così agito perché realmente convinto della colpevolezza dell'accusato. Per il pieno scagionamento dall'addebito penale, è però necessario che la convinzione derivi da elementi certi e non da semplici sospetti o opinioni personali. Lo afferma la Cassazione penale con la sentenza 38644/10.
Al centro della questione, un uomo ritenuto responsabile – in primo grado – del reato di calunnia. Questi, secondo la ricostruzione dei fatti, aveva ingiustamente accusato un curatore fallimentare di aver commesso truffa, falso e associazione indebita (per aver sottostimato, in cambio di denaro, il valore effettivo di macchinari e merce della società fallita, a vantaggio della ditta acquirente). Vista la falsità delle accuse, il tribunale lo condanna alla pena di legge e al risarcimento del danno. La decisione si ribalta in appello, dove i giudici assolvono l'imputato sul presupposto che i fatti riferiti in parte erano veri (quanto alla sottovalutazione della merce). E poi, aggiungono, sarebbe mancato il dolo, inteso come precisa volontà di calunniare: il reo, infatti, aveva proferito quelle frasi perché effettivamente convinto della colpevolezza del curatore. Contro l'assoluzione, ricorrono il procuratore generale e la parte civile sostenendo la sussistenza del reato di calunnia. A loro dire, le affermazioni dell'imputato erano oggettivamente dirette ad incolpare il curatore «della collusione… con gli acquirenti dei beni provenienti dal fallimento».
Ne è convinta anche la Cassazione, che ha accolto il ricorso e rinviato al giudice di merito per decidere sulle questioni civili (vista la sopravvenuta prescrizione del reato). Ma la sentenza si è trasformata nell'occasione per fare il punto sulla nozione di calunnia. L'articolo 368 del codice penale punisce chi «incolpa di un reato taluno che egli sa innocente». La chiave è tutta qui. Sono due, allora, gli aspetti da chiarire: cosa si intenda con il termine incolpare e quanto incida la consapevolezza, da parte del reo, che l'incolpato sia innocente.
ùSotto il primo profilo, la Cassazione specifica che l'accusa idonea a integrare calunnia può essere anche «implicita, formulata mediante espressioni suggestive e tendenziose, purché dal suo tenore e dal contesto delle circostanze in cui viene formulata emerga la volontaria attribuzione di un fatto costituente reato». Non sarà necessario, dunque, che si incolpi taluno indicando espressamente il «nome» del reato di cui lo si accusa. Basterà l'aver descritto – e addebitato a innocente cittadino – fatti e comportamenti penalmente rilevanti. Nel caso concreto, l'imputato – nel suo esposto – aveva accusato il curatore di aver «accettato la sottostima» dei beni e di aver «percepito un lauto compenso» (marcandone, in tal modo, l'infedeltà ai doveri professionali).
Quanto al secondo aspetto, va rilevato che la legge ricollega la calunnia alla consapevolezza (da parte del denunciante) circa l'innocenza dell'accusato. Viceversa, il reato non verrà a esistere quando la persona che incolpa taluno di aver commesso un reato, ne sia effettivamente convinta della colpevolezza. La Cassazione, inoltre, puntualizza che la convinzione di reità – affinché possa valere a escludere la rilevanza penale della condotta – deve fondarsi su elementi certi e non su semplici opinioni personali o meri dubbi. In altre parole, è necessario che «le circostanze di fatto in base alle quali il calunniante ha presentato la sua denuncia» siano tali da indurre qualsiasi persona a convincersi della colpevolezza dell'accusato. Nella vicenda specifica, invece, l'imputato aveva supposto che il curatore avesse commesso i reati – truffa, appropriazione indebita e falso – sulla base di semplici ipotesi. Egli, difatti, aveva tratto le sue convinzioni solo dalla lettura della stima peritale. In altre parole, gli era bastato confrontare i prezzi originari dei beni con quelli, notevolmente più alti, di realizzo per incolpare il curatore di essersi inserito in una "catena delittuosa". Ma un tale convincimento, proprio perché derivante da una mera «percezione soggettiva», e non da elementi oggettivi, non poteva valere a liberare l'imputato dalle accuse di calunnia.
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-11-15/manca-dolo-calunnia-064115.shtml?uuid=AY5LNojC
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