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  • CASSAZIONE: L’obbligo di retribuire la formazione del medico specializzando. Quando il legislatore italiano è disattento nell’applicazione della norma

    Nota a sentenza Cassazione n. 9147 del 17 aprile 2009
    Una recente sentenza della Cassazione[1] ha fatto luce su un delicato aspetto relativo all’obbligo di retribuzione dei medici specializzandi.
    Nel nostro Paese detta problematica era stata per anni inevasa pur in presenza di una serie di Direttive comunitarie[2] , una delle quali imponeva agli Stati membri quale termine ultimo di attuazione il 31 dicembre 1982.
    La assenza di una norma interna di adeguamento alla normativa comunitaria aveva finito con il dare la stura ad una miriade di contenziosi da parte di diverse centinaia di medici specializzandi, con esiti tra loro spesso contrastanti[3].
    La inazione del legislatore italiano aveva causato il pronunciamento della Corte di Giustizia europea[4] per inosservanza degli obblighi e dei termini prescritti dalle direttive in materia, con conseguente condanna dell’Italia alle spese.
    Successivamente, con delega conferita con legge 29 dicembre 1990, n. 428, attraverso il decreto legislativo 8 agosto 1991, n. 257 (successivamente abrogato) il nostro legislatore aveva stabilito a favore degli specializzandi una borsa di studio annuale[5], limitando però detto beneficio ai soli medici ammessi alle scuole di specializzazione a decorrere dall’anno accademico 1991/92.
    La individuazione di tale arco temporale risultava però penalizzante nei riguardi degli specializzandi che non vi rientravano (id est, tutti coloro che erano stati ammessi o che avevano frequentato le scuole di specializzazione medica in un periodo anteriore al 1991 anche nelle ipotesi in cui il corso di specializzazione era terminato negli anni successivi al 1991) per cui molti medici proposero ricorso davanti l’Autorità giudiziaria.
    Con legge[6] del 19 ottobre 1999, n. 370, si ritenne di attribuire una borsa di studio annua a quei medici vincitori di sentenze amministrative passate in giudicato, in maniera forfettaria per tutta la durata del corso.
    La Corte di Giustizia europea, V sezione, con sentenza del 25.02.99 nel procedimento n. C 131/96[7], ha riconosciuto ad alcuni ricorrenti il diritto ad essere risarciti per la mancata retribuzione del periodo di frequenza del corso di specializzazione.
    Questi medici, infatti, non avevano ricevuto alcun compenso durante la frequenza del corso avvenuta in anni compresi tra il 1983 e il 1991, perché lo Stato italiano non aveva provveduto a recepire e rendere operativa la direttiva (802/76 CEE) fino al 1991.
    Competeva però al giudice nazionale determinare i beneficiari che appartenevano alla categoria dei medici iscritti ad uno dei corsi di specializzazione prescritti dalla direttiva.
    Solo con il decreto legislativo[8] n. 368 del 1999 si recepì la materia prevedendo, tra le altre incombenze, a carico dell’Università la erogazione della retribuzione ma tale aspetto non venne mai attuato a causa della sua mancata copertura finanziaria.
    A seguito della legge[9] 19.10.99 n. 370, fu emesso il Decreto[10] 14.2. 2000 che consente agli ex specializzarsi di richiedere, entro novanta giorni dalla data di pubblicazione del decreto stesso, la corresponsione della relativa borsa di studio[11].
    Nell’anno 2007 l’accordo Stato-Regioni portò all’elaborazione di uno schema di contratto individuale.
    Sempre la Corte di Giustizia europea, con successiva sentenza del 3 ottobre 2000 (causa C-371/97) disponeva che il fondamento dell’obbligo di retribuire i periodi formazione specialistica stesse nella durata minima della formazione specialistica e nel fatto che essa dovesse svolgersi a tempo pieno.
    Tale obbligo[12] di retribuire in maniera adeguata i periodi di formazione era da ritenere sufficientemente dettagliato e, pertanto, gli Stati membri vi si dovevano attenere in maniera letterale.
    Al giudice dello Stato membro competeva di accertare se l’importo della remunerazione adeguata e l’istituzione tenuta al pagamento potessero essere determinati alla luce delle disposizioni normative interne, al fine di conseguire il risultato voluto dalla stessa Corte.
    Secondo la Corte analogo trattamento spettava agli specializzandi a tempo ridotto.
    L’oggetto del contendere
    L’oggetto del contendere, in buona sostanza, attiene al diritto alla retribuzione dei medici specializzandi, diritto riconosciuto a livello comunitario ma negato dall’Italia.
    La Cassazione, nella citata sentenza, ha dovuto intervenire in merito alla sentenza della Corte di appello di Lecce (n. 842 del 18 dicembre 2006) che aveva accolto il ricorso prodotto da un medico, riformando la decisione del giudice di primo grado (sentenza del 18 febbraio 2003), ed ha condannato l’allora Ministero dell’università e della ricerca scientifica.
    Il giudice di appello, da parte sua, ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno, ai sensi dell’art. 2043 c.c[13]., a causa di una violazione da parte dello Stato che non aveva dato attuazione alle direttive comunitarie, approvate sull’argomento oggetto della contesa, che imponevano la remunerazione del medico frequentante un corso di specializzazione.
    Circa la durata della prescrizione che secondo il giudice di prima istanza doveva considerarsi quinquennale, la Corte d’appello eccepiva la esistenza di una prescrizione decennale non potendo la fattispecie essere ricondotta ad un rapporto di pubblico impiego.
    La sentenza.
    La suprema Corte ha ritenuto che la mancata trascrizione da parte dell’ordinamento italiano delle direttive comunitarie, in particolare la n. 82 del 1976 Cee abbia fatto sorgere “il diritto degli interessati al risarcimento del danno cagionato per il ritardato adempimento, consistente nella perdita di chance di ottenere i benefici – essenziali per consentire un percorso formativo scevro, almeno in parte, da preoccupazioni esistenziali – resi possibili da una tempestiva attuazione delle direttive medesime.”
    In merito alla qualificazione giuridica del rapporto di lavoro scaturito attraverso lo svolgimento della frequenza obbligatoria dello specializzando, la Cassazione ha ritenuto di aderire all’analisi condotta dal giudice di appello che ha negato la possibilità di ascrivere detta attività nell’ambito del rapporto di lavoro subordinato né tanto meno tra le ipotesi di cosi detta parasubordinazione[14].
    La attività in questione “consiste (omissis) in prestazioni finalizzate essenzialmente a consentire la formazione teorica e pratica del medico specializzando e non già a procacciare utilità alle strutture sanitarie nelle quali essa si svolge, per cui gli emolumenti per esso previsti sono sostanzialmente destinati a sopperire alle sue esigenze materiali” considerato che il tempo da dedicare a tale impegno è pari almeno alle 28 ore settimanali.
    Altro interessante aspetto trattato nella sentenza della Cassazione riguarda il termine di prescrizione[15] relativamente alla domanda di risarcimento avanzata dal sanitario medico.
    Ricordiamo, per inciso, che il giudice di primo grado aveva stabilito doversi fare riferimento alla prescrizione quinquennale mentre il giudice di appello si era rifatto alla prescrizione decennale.
    La Cassazione ha adottato la tesi del termine di prescrizione ordinaria derivante da responsabilità civile di natura contrattuale, che ha una durata decennale.
    Riguardo, invece, alla richiesta di risarcimento del danno esso “non può essere subordinato alla sussistenza del dolo o della colpa” mentre per ciò che attiene alla sua quantificazione “il risarcimento deve essere adeguato al danno subito” e spetta all’ordinamento interno stabilire i criteri di liquidazione, anche se esso “non può essere limitato ai soli danni subiti successivamente alla pronunzia di una sentenza della Corte di Giustizia che accerti l’inadempimento.”
    A tale proposito la Corte di Giustizia ha fissato tre condizioni che la Repubblica italiana deve rispettare nel risarcire i danni causati ai singoli: “che la norma violata abbia lo scopo di attribuire diritti a favore dei singoli il cui contenuto possa essere identificato, che la violazione sia sufficientemente grave e che esista un nesso di causalità diretta tra la violazione dell’obbligo imposto allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi”.
    Riguardo l’inadempimento dello Stato, perché da esso scaturisca un diritto al risarcimento, non è richiesto un comportamento doloso o colposo dovendosi, quindi, riconoscere “al danneggiato un credito alla riparazione del pregiudizio subito per effetto del c.d. fatto illecito del legislatore di natura indennitaria”.
    In buona sostanza la monetizzazione[16] serve a compensare il sanitario della perdita subita in conseguenza del ritardo cagionato dallo Stato.
    Conclusione
    E’ auspicabile da parte del legislatore italiano un adeguamento, seppure tardivo!, a quanto prescritto dalla Corte di Giustizia europea e ribadito dalla Corte di Cassazione.
    Tale vulnus andrebbe, quindi, sanato attraverso una legge che riconosca una remunerazione adeguata ai medici specializzandi a decorrere dall’anno accademico 1982/83.
    A tale proposito una recente proposta di legge[17] prevede che l’ammontare dell’importo dovuto sia calcolato sulla base della somma attribuita a tutti i medici iscritti a partire dall’anno accademico 1991/92.
    fonte diritto.it

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