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La Corte Ue: da risarcire le violazioni dell'orario
Il datore di lavoro pubblico o privato che reiteratamente fa superare le 48 ore medie settimanali al lavoratore può essere chiamato al pagamento di un risarcimento del danno. È il lavoratore, comunque, che deve dimostrare che esiste un nesso causale diretto tra la violazione della disposizione e il danno subito. È il principio che emerge dalla sentenza nella causa C-429/09 della Corte di giustizia europea che ha interpretato la direttiva 93/104/Ce in materia di orario di lavoro nella parte in cui fissa i parametri della durata massima della prestazione lavorativa.
Proprio sul punto, i giudici affermano che la regola sulla durata massima costituisce una norma del diritto sociale dell'Unione, di cui ogni lavoratore deve poter beneficiare quale prescrizione minima necessaria per garantire la tutela della sua sicurezza e della sua salute. Il caso riguarda un vigile del fuoco tedesco. Fino al 4 gennaio 2007 il suo orario di servizio prevedeva mediamente 54 ore per settimana, durante i quali doveva essere presente in caserma. Il lavoratore aveva chiesto da tempo di osservare un orario nel rispetto della direttiva comunitaria e di compensare gli straordinari effettuati illegittimamente (tra il 1° gennaio 2004 e il 31 dicembre 2006) sotto forma di riposo ovvero di un'indennità corrispondente alle ore straordinarie svolte. La richiesta è stata respinta ed è nato un contenzioso.
Chiamata a pronunciarsi, la Corte di giustizia ha stabilito che il diritto dell'Unione conferisce a un lavoratore che abbia osservato un orario di lavoro settimanale superiore al limite di 48 ore medie un diritto al risarcimento del danno subìto. Devono, però, essere soddisfatte tre condizioni: che la norma giuridica dell'Unione violata sia preordinata a conferire loro diritti; che la violazione sia sufficientemente qualificata; che esista un nesso causale diretto tra la violazione e il danno subìto dai singoli.
La Corte spiega che certamente la direttiva conferisce il diritto ai singoli che può essere esercitato in modo diretto. La violazione qualificata si realizza quando essa è «grave e manifesta». Spetta poi al giudice stabilire se esiste un nesso causale diretto tra la violazione e il danno subìto dai singoli. Peraltro, la Corte chiarisce che il diritto dell'Unione non ammette una normativa nazionale, che subordina il diritto al risarcimento a una condizione fondata sulla colpevolezza del datore di lavoro che vada oltre la violazione sufficientemente qualificata del diritto.
In merito alla forma dell'indennizzo, spetta al diritto nazionale determinare, nel rispetto dei principi di equivalenza e di effettività, se il danno subìto debba essere risarcito mediante la concessione di tempo libero aggiuntivo o di un'indennità pecuniaria. Se da un lato si chiarisce un aspetto importante della direttiva, dall'altro lato il principio stabilito dalla Corte desta qualche preoccupazione, soprattutto in considerazione del fatto che a oggi le imprese e i professionisti ancora non conoscono la corretta modalità di calcolo delle 48 ore medie fissate dal decreto legislativo 66/03. Non è necessaria l'esistenza di una colpa del datore di lavoro per generare la richiesta di risarcimento del lavoratore, spiega la Corte. Basta che il datore, anche senza saperlo, vìoli in modo reiterato la disposizione.
http://www.ilsole24ore.com/art/norme-e-tributi/2010-11-26/violazioni-orario-risarcire-085903.shtml?uuid=AYnmdkmC
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