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NELLA RAPPRESENTAZIONE I RAPPRESENTATI POSSONO ESSERE SOLO I FIGLI E NON ANCHE I NIPOTI
L’A. parte dalla recente decisione Cassazione, Sez. II, 28 ottobre 2009, n. 22840 per alcune riflessioni in tema di rappresentanza successoria.
SOMMARIO: Premessa. – 1. Il caso. – 2. Fondamento della previsione riguardo al limite soggettivo per il rappresentato. – 3. La natura giuridica dell’acquisto del rappresentante
Premessa
La rappresentazione è un istituto di diritto singolare che pone una regola eccezionale rispetto a quella generale che vuole che gli effetti della successione si producano esclusivamente nei confronti del chiamato. La rilevanza soggettiva accordata alla figura del rappresentato non è suscettibile di estensione oltre il limite posto dalla legge, in accordo con la tradizione dell’istituto, che nella sua struttura risente del valore riconosciuto dalla legge alla famiglia.
1. Il caso
Il de cuius aveva disposto di devolvere i propri beni con testamento pubblico in favore dei due figli e del nipote ex filia. Prima dell’apertura della successione muoiono due dei tre istituiti: prima la figlia e poi il figlio di questa. Così, all’apertura della successione i nipoti del de cuius chiedono al Tribunale di accertare il loro il diritto di succedere al bisnonno per rappresentazione del proprio padre.
Il Tribunale di Patti negava il diritto a succedere per rappresentazione; la Corte d’appello di Messina riconosceva, invece, la titolarità del diritto agli appellanti.
La Corte territoriale basava la propria pronuncia sull’interpretazione che pone una delimitazione soggettiva dell’art. 468 cod. civ., riferita al solo rappresentante e non al rappresentato; pertanto, se è vero che l’art. 468 cod. civ. prevede che «La rappresentazione ha luogo, nella linea retta, a favore dei discendenti dei figli [..] del defunto..», i nipoti non resterebbero esclusi dalla previsione normativa e questi in quanto discendenti del proprio bisnonno verrebbero alla sua successione per rappresentazione.
Il giudizio di cassazione si incentra prevalentemente sulla estensione soggettiva dell’art. 468 cod. civ.; la Corte ha chiarito che questa norma si riferisce esclusivamente al rappresentato. Applicando l’interpretazione sostenuta dai ricorrenti e accolta nella sentenza in commento l’effetto di far subentrare - ex art. 467 cod. civ. - il discendente in luogo dell’ascendente, opera esclusivamente allorquando il rappresentato è figlio del de cuius, e non, invece, allorché questi sia il nipote.
L’interpretazione della Suprema Corte di cassazione è costruita partendo dal fondamento storico dell’istituto, la cui funzione è quella di assicurare che i successibili vengano alla successione anche se il discendente non può accettare l’eredità.
Nella vicenda in esame, applicando l’interpretazione dell’art. 468 cod. civ. fornita dalla Corte di cassazione, la rappresentazione avrebbe dovuto operare a favore del nipote del de cuius – nella qualità di rappresentante - in quanto discendente (secondo l’art. 469 cod. civ.) della figlia premorta – assumendo quest’ultima la qualità di rappresentata, secondo la previsione dell’art. 468 cod. civ. - . Sennonché, premorto anch’egli al testatore, la rappresentazione non può operare a favore dei figli del nipote, perché difetterebbe la figura del rappresentato, che non può essere il nipote del de cuius.
Richiamando il contenuto di una propria precedente pronuncia[1] la Suprema Corte con la sentenza in commento chiarisce ulteriormente i limiti soggettivi di operatività della rappresentazione in linea retta. L’indicazione dei soggetti è tassativa e non può essere allargata dall’interprete; la stessa è il risultato di una scelta del legislatore che ha individuato nei figli, tra tutti i possibili soggetti, le figure del rappresentato.
La previsione dell’art. 469 cod. civ. che estende all’infinito la rappresentanza si riferisce al rappresentante, stante il limite posto dall’art. 468 cod. civ. per il rappresentato, che non può che essere il figlio del de cuius.
La sentenza arriva alla soluzione, non tanto seguendo un’interpretazione letterale delle norme ma, richiamando l’evoluzione normativa in materia successoria.
In realtà nulla di nuovo emerge in ordine alla disciplina dell’istituto della rappresentazione: ogni punto di diritto è tratto da precedenti pronunce, e pertanto, si tratta di un’interpretazione fortemente aderente alla tradizione dell’istituto, così da evitare che possano venire alla successione soggetti che con il de cuius non hanno stretti vincoli di sangue.
2. Fondamento della previsione riguardo al limite soggettivo per il rappresentato.
La regola generale in materia successoria vuole che gli effetti della successione si producano esclusivamente nei confronti del chiamato, cosicché, se questi premuore al de cuius gli effetti non potranno più prodursi in confronto di altri.
Alla regola dell’inefficacia delle disposizioni testamentarie che riguardano l’istituito premorto, il diritto romano[2] prevedeva l’eccezione nei riguardi del figlio del de cuius; il principio e la sua eccezione arrivarono nel codice attuale, passando dal diritto intermedio[3], sino a penetrare nella codificazione[4].
Venendo al punto di diritto controverso, la Corte chiarisce ancora una volta, richiamando un proprio precedente[5], che le indicazioni soggettive dell’art. 468 cod. civ. devono rettamente intendersi come riferite al rappresentato, mentre per il rappresentante la rappresentazione opera all’infinito; così, all’apertura della successione, se il figlio del de cuius non può o non vuole accettare l’eredità, la rappresentazione potrà avere luogo, ex art. 469 cod. civ., all’infinito.
L’individuazione di tali limiti soggettivi - in particolare per quanto rileva nella vicenda in commento, quelli che riguardano il rappresentato – sono strettamente legati al fondamento dell’istituto della rappresentazione, costruito intorno alla tutela della famiglia.
In tal modo, la sentenza in commento richiama quanto affermato in altra precedente pronuncia[6] e ripercorre l’evoluzione dell’istituto osservando che questo è il risultato del mutamento «.. del suo fondamento sociale..», da rintracciarsi «..nella protezione della famiglia..»; più precisamente, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale[7] tale sarebbe la «..tutela gli interessi della famiglia del mancato erede». La stessa sentenza della Corte costituzionale ritiene le limitazioni soggettive aderenti al quadro costituzionale entro cui è chiamato ad operare l’istituto della rappresentazione, perché «..connaturate ed intrinsecamente necessarie alla coerenza giuridica della rappresentazione la quale è un istituto di diritto singolare nel quale vengono alla successione soggetti che senza di esso ne resterebbero esclusi..».
3. La natura giuridica dell’acquisto del rappresentante.
Il fondamento storico con il connesso limite soggettivo si ripercuote sulla natura giuridica dell’istituto e l’evoluzione delle mutate dinamiche familiari disegnano il confronto tra le diverse teorie.
Da tale confronto emerge la prevalenza della tesi che ricostruisce la natura giuridica dell’istituto della rappresentazione in maniera da meglio valorizzare le caratteristiche familiari[8]: la funzione non è più la tutela della famiglia del defunto, ma di quella del mancato successore[9].
Pertanto, alla luce della funzione si deve escludere che la rappresentazione possa essere assimilata al fenomeno di conversione operante in materia contrattuale[10], così come non è propriamente corretto intenderla come una finzione[11]. Quest’ultima teoria postula l’acquisto iure rapraesentationis, mentre nella realtà avviene iure proprio. Come messo in luce da S. Pugliatti[12] riferendosi alla finzione come un «..espediente, per spiegare meno il meccanismo dell’istituto..». Pertanto, si può parlare semmai di vocazione indiretta[13] o di delazione indiretta[14].
[1] Cass., civ., 11 aprile 1975, n. 1366, in Mass. Giust. civ., 1975, che a proposito dei limiti soggettivi degli artt. 467 e 468 cod. civ. chiarisce che «..I suddetti limiti richiedono per la rappresentazione in linea retta che il c.d. rappresentato sia figlio (senza distinzione tra figli legittimi, legittimati, adottivi, naturali) del de cuius, e che il c.d. rappresentante sia discendente anche naturale del rappresentato..»
[2] La funzione principale a cui era destinato l’istituto della rappresentazione nel diritto romano, comportando la successione per stirpi, era quella di garantire l'integrità della quota dei discendenti di grado più prossimo.
Inizialmente trovava applicazione esclusivamente nei confronti dei maschi; nel diritto postclassico, si ammise l’applicazione dell’istituto anche nei confronti della linea discendente femminile, nonché nell’ipotesi che l’ereditando fosse di sesso femminile.
Con la legge delle XII Tavole si dette rilievo primario ai fini della funzione dell’istituto al concetto della familia proprio iure. All'ereditando sui iuris succedono i sui, cioè i soggetti alla di lui patria potestà, i quali, alla di lui morte, diventino a loro volta sui iuris.
[3] L’estrema frammentazione dell’istituto in quest’epoca risente delle diverse tipologie di famiglia che si ebbero nella storia; i giuristi hanno tentato di ricostruire un diritto unitario alla successione in stirpes.
Nell’alto medioevo, dopo un periodo in cui l’istituto non fu ammesso nella maggior parte degli ordinamenti, nella successione legittima la quota del figlio maschio premorto al de cuius fu attribuita ai suoi figli maschi.
In epoca feudale, accanto alla successione legittima o testamentaria esisteva quella feudale regolata dallo ius speciale.
Nella successione ereditaria e legittima le fonti ammisero il diritto di rappresentazione soltanto in linea retta all’infinito.
Nel diritto statutario italiano si assiste all’abbandono dell’equiparazione di origine giustinianea tra agnazione e cognazione e si superò, pure, quella tra maschi e femmine; nella linea maschile, gli Statuti ammisero in genere la rappresentazione nella linea retta all'infinito.
[4] L’art. 890, comma 1 del codice del 1865 stabiliva espressamente la regola dell’inefficacia della disposizione testamentaria in caso di premorienza dell’istituito al testatore: «Qualunque disposizione testamentaria è senza effetto, se quegli, in favore del quale è stata fatta, non è sopravvissuto al testatore o è incapace»; a questa regola faceva eccezione la regola posta in materia di rappresentazione.
[5] Cass. civ., 18 giugno 1946, n. 911, in Giur. completa Cass. civ., 1946, con nota di PIRAS, Sui limiti dell’istituto della rappresentazione; in Giur. it., 1947, I, con nota contraria di PINO, Limiti di applicazione del diritto di rappresentazione.
[6] Cass., Civ., 29 marzo 1994, n. 3051, in Giust. civ., 1994, I, 1845 ss.; in Foro it., 1994, I, 2, 2739 ss.; in Dir. fam., 1994, 893 ss. e in Riv. not., 1994, 1487 ss.
[7] Corte. cost., 14 aprile 1969, n. 79, in Giur. it., 1969, I; in Foro it., 1969, I; in Giust. civ., 1969, II; in Vita not., 1962.
[8] Cfr.: Corte cost., 14 aprile.1969, n. 79, cit., secondo cui l’istituto ha subito rilevanti modifiche strutturali quale risultato delle modifiche sociali.
[9]Cfr.: Cass., civ., 29 marzo 1994, n. 3051, cit., secondo cui «.. quale che sia la natura della rappresentazione, in concreto questa tutela gli interessi della famiglia del mancato erede, impedendo che i beni le siano tolti sol perché il genitore non vuole o non può accettarli». In dottrina, cfr.: PEREGO, La rappresentazione, in Trattato di dir. priv. a cura di RESCUGNO, 5, I, Torino, 1007, 124, che basa tale assunto sull’ipotesi che tra rappresentante e de cuius manchi ogni rapporto di parentela, così da ritenere che il fondamento sia nella tutela della discendenza del rappresentato. In senso difforme, cfr.: L. BARASSI, Le successioni per causa di morte, Milano, 1947, 61; ACHIENZA, Riflessioni sul fondamento e sui limiti della successione rappresentazione, in Riv. giur, sarda, 1993, 241 ss.
[10] Cfr. NICOLÒ, La vocazione ereditaria diretta ed indiretta, Messina, 1934, 153, con la conversione della vocazione del rappresentato in quella del rappresentante. Mancherebbe in questo caso il presupposto per aversi la conversione, vale dire la nullità del negozio, non l’inesistenza della vocazione.
[11] Si tratta di una teoria che traeva il fondamento teorico dalla definizione che il codice francese dava della rappresentazione quale «finzione della legge».
[12] S. PUGLIATTI, Alcune note sulle successioni legittime, in Annali Messina, V, 1931, 377- 429 (Recenzione del libro di F. DEGNI, Lezioni di diritto civile – La successione a causa di morte, I, Padova, 1931, ora in S. PUGLIATTI, Scritti giuridici, I, 1927-1936, Milano, 244, secondo cui l’istituto della rappresentazione dell’abrogato codice «..va guardata dal punto di vista di coloro che hanno diritto alla collazione..devono poter recuperare quanto donato dal de cujus».
[13] La sentenza in commento chiarisce la natura giuridica della rappresentazione ove, richiamando un proprio precedente, cfr.: Cass. civ. 30 maggio 1990, n. 5077, in Rep. Foro it., 1990, Successione ereditaria, n. 62, ove la qualifica chiaramente come «..vocazione indiretta..». Sull’esatta portata dell’aggettivo si può notare che la chiamata è indiretta perché si verifica solo se il primo chiamato si trovi nella condizione descritta dall’art. 467, comma 1, cod. civ. di non poter o non voler accettare.
S. PUGLIATTI, op. cit., 247, il quale propende per la natura di vocazione indiretta subordinata.
Cfr.: Cass. 11 aprile 1975, n. 1366, in Mass. Giust. civ., 1975, 621, secondo la quale «la posizione dell’erede rappresentante si determina in base al contenuto della vocazione del chiamato..».
[14] Si tratterebbe di delazione indiretta sia oggettivamente che soggettivamente intesa.
Cfr. CICU, Successioni per causa di morte, Parte generale, inTratt Cicu eMessineo, XLI,Milano, 2ª ed., 1961, 183
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