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SCATTA IL REATO DI PATROCINIO INFEDELE PER L'AVVOCATO CHE NON PARTECIPA ALLE UDIENZE E OMETTE DI CITARE I TESTI A SOSTEGNO DELLA TESI DEL SUO CLIENTE
Cassazione, Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 42913
1.Il delitto di cui all’art. 380/1 c.p. (patrocinio infedele) è un reato che richiede per il suo perfezionamento, in primo luogo, una condotta del patrocinatore irrispettosa dei doveri professionali, stabiliti per fini di giustizia a tutela della parte assistita ed, in secondo luogo, un evento che implichi un nocumento agli interessi di quest’ultimo, inteso non necessariamente in senso civilistico di danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento dei beni giuridici o dei benefici di ordine anche solo morale, che alla stessa parte sarebbero potuti derivare dal corretto e leale esercizio del patrocinio legale.
2.È stato poi anche chiarito che sul piano soggettivo non assume rilievo la volontà specifica di nuocere alla parte
Cassazione, Sez. VI, 2 dicembre 2010, n. 42913
(Pres. Di Virginio – Rel. Gramendola)
Fatto e diritto
Con sentenza in data 28/9/2005 il Tribunale monocratico di Chieti assolveva S. C. perché il fatto non sussiste dal reato di cui all’art. 380 c.p., perché nella sua qualità di patrocinatore di B. M., nella causa di opposizione a decreto ingiuntivo, promossa nei suoi confronti dal debitore D.A. A. dinanzi al Tribunale di Pescara, si era reso infedele ai suoi doveri professionali, omettendo di citare i testi a sostegno della tesi del suo assistito e astenendosi da ogni attività professionale, in tal modo arrecando danno alla parte da lui difesa, che rimaneva soccombente.
Osservava detto giudice che la condotta dell’imputato andava inquadrata nell’ambito di una scelta processuale, che non poteva integrare gli estremi del reato, conseguente alla valutazione del materiale probatorio a disposizione di entrambe le parti e delle prove contrarie addotte dalla controparte, e che era conveniente nell’interesse del patrocinato non svolgere ulteriore attività processuale, condividendo le valutazioni espresse in proposito dal G.I.P. in precedente decreto di archiviazione.
A seguito di gravame della parte civile, la Corte di Appello dell’Aquila con la sentenza indicata in epigrafe, andando in contrario avviso della decisione di primo grado, dichiarava l’imputato colpevole del reato ascritto e lo condannava alla pena di giustizia oltre al risarcimento del danno alla parte civile, sostenendo che, nonostante la mancata citazione del teste, che da lui contattato aveva riferito di non sapere nulla in ordine ai fatti di causa, era evidente il comportamento omissivo dell’imputato, che non solo si astenne dallo svolgere attività istruttoria, ma di fatto abbandonò la difesa, non comparendo in alcuna delle udienze di trattazione, neppure rendendo le conclusioni; comportamento questo non ascrivibile a mera negligenza, fonte di responsabilità professionale, ma a vera e propria omissione dolosa, fonte anche di responsabilità penale.
Contro tale decisione ricorre l’imputato a mezzo del suo difensore e a sostegno della richiesta di annullamento denunzia con il primo motivo l’erronea applicazione della legge penale, sostenendo che mancava nella fattispecie il requisito dell’evento, inteso quale “nocumento arrecato agli interessi della parte difesa”, che la giurisprudenza di legittimità considerava essenziale, senza il quale non poteva configurarsi il reato de quo, e censura l’errore della corte di merito che aveva interpretato il concetto di nocumento come perdita della possibilità di far valere le proprie ragioni, dimenticando che qualsiasi tipo di condotta in violazione delle norme deontologiche potrebbe astrattamente determinare una perdita di possibilità difensive, laddove invece la fattispecie di reato esigeva che dalla condotta fosse derivato un evento dannoso concreto.
Lamenta con il secondo motivo l’assenza di motivazione in riferimento alla valutazione degli elementi costitutivi del reato ex art. 380 c.p., stigmatizzando il discorso giustificativo del giudice del gravame, che aveva omesso di indicare gli argomenti per i quali la condotta posta in essere dall’imputato non rientrasse nell’ambito di comportamenti discrezionali del difensore, eventualmente censurabili a livello disciplinare e fossero da considerarsi invece come condotte infedeli; vizio questo risultante dal verbale di interrogatorio al P.M., nel quale aveva ampiamente giustificato la sua condotta professionale e dagli atti del giudice civile, dove si evinceva che i motivi della revoca del decreto ingiuntivo non erano addebitabili all’inerzia del procuratore.
Il ricorso è destituito di fondamento e va pertanto rigettato.
Ed invero la giurisprudenza di questa Corte ha più volte chiarito che il delitto di cui all’art. 380/1 c.p. (patrocinio infedele) è un reato che richiede per il suo perfezionamento, in primo luogo, una condotta del patrocinatore irrispettosa dei doveri professionali, stabiliti per fini di giustizia a tutela della parte assistita ed, in secondo luogo, un evento che implichi un nocumento agli interessi di quest’ultimo, inteso non necessariamente in senso civilistico di danno patrimoniale, ma anche nel senso di mancato conseguimento dei beni giuridici o dei benefici di ordine anche solo morale, che alla stessa parte sarebbero potuti derivare dal corretto e leale esercizio del patrocinio legale (Cass. Sez. VI, 19/12/95-13/3/96 n. 2698 Rv. 204509; 9/11-18/12/06 n. 41370 Rv. 235548; 28/3-29/7/08 n. 31678 Rv. 240645).
È stato poi anche chiarito che sul piano soggettivo non assume rilievo la volontà specifica di nuocere alla parte (Cass. Sez. VI, 2/3-2/4/1992 n. 3785 Rv. 189794).
Nel caso in esame il giudice del gravame ha fatto corretta applicazione dei menzionati principi, onde la motivazione si profila immune da vizi logici o interne contraddizioni e quindi pienamente condivisibile e incensurabile in questa sede, laddove pone in risalto, in coerenza con le risultanze acquisite, la condotta sicuramente irrispettosa dei doveri professionali, consistita nella consapevole omissione di qualsiasi attività difensiva, non comparendo a nessuna delle udienze di trattazione o istruttorie, e neppure rendendo le conclusioni, nonostante il rigetto della richiesta di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, che il giudice civile procedente aveva giustificato con la carenza di documentazione fiscale a sostegno della pretesa creditoria. Non ha mancato poi la corte distrettuale di soffermarsi sul requisito del nocumento, correttamente individuato nella perdita da parte del patrocinato di ogni possibilità di far valere le proprie ragioni, stante la totale mancanza di prospettazioni difensive da parte dell’opposto, evidenziata nella stessa sentenza del giudice civile.
Non si è trattato quindi di una strategia difensiva, come pretende la difesa, ovvero una scelta processuale, conseguente all’analisi e alla valutazione delle prove in possesso del difensore, ma di una consapevole e quindi dolosa prevaricazione di doveri professionali, assunti con la parte patrocinata.
Segue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
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